Nell’arte, così come nella geometria descrittiva, il punto di fuga, è il luogo dove convergono (verso cui fuggono) le linee di profondità. I punti di fuga si trovano sempre sulla linea d’orizzonte.
Nella vita è il punto a cui guardiamo quando progettiamo, speriamo, sogniamo.
Più è grande il progetto, la speranza, il sogno, più il punto sembra lontano.
Ciò che più comunemente chiamiamo prospettiva altro non è che lo spazio nel quale nascono, vivono e muoiono le nostre idee.
Ricordo, nei miei libri di storia dell’arte, intere pagine dedicate al concetto di prospettiva nel Rinascimento: lo spazio prospettico era il quadro, una finestra sul mondo nella quale tutto avrebbe trovato posto e tutto avrebbe dovuto convergere in un punto. Uno spazio rassicurante: l’infinito chiuso in una cornice.
La storia ci ha insegnato che non esiste una finestra, esistono infinite finestre. I punti di vista variano costantemente così come i nostri orizzonti. E non solo: la percezione della realtà si trasforma da individuo a individuo. Non esiste oggetto che sia visto allo stesso modo da due persone diverse.
Il Novecento ha scompaginato certezze e unità di misura, sostituendo la sicurezza di una cornice con la precarietà dello sguardo, l’impalpabilità del reale e infiniti orizzonti.
E poi la pandemia.
La pandemia ha creato un’unità di misura universale che ha ridotto ai minimi termini la distanza tra noi e l’orizzonte.
Lo spazio prospettico è tornato ad essere un quadro: la finestra di casa ai tempi del lockdown. Una cornice di legno, infinite rette parallele che non hanno avuto neanche il tempo di proiettarsi, se non sul terrazzo di fronte.
Lo spazio dei progetti, delle speranze e dei sogni è diventato il cortile condominiale.
I colori delle zone su una tavolozza in cui nessun pittore riesce più a creare sfumature.
Georges Vigarello, autore del saggio “Storia della fatica” riflette sullo spossamento che si è impadronito della nostra società assediata dal Covid. La vera fatica consiste non più nel fare ma nel non fare. E ancora meglio quel senso di languore, come lo definisce lo psicologo Adam Grant sul New York Times. Languishing è il senso vero di stagnazione e vuoto, appunto. È come se stessimo arrancando attraverso i nostri giorni, guardando la vita attraverso un parabrezza appannato.
Il senso più profondo del languire risiede proprio nel non essere più in grado di guardare verso un punto di fuga. Non si può fuggire, noi non possiamo farlo, tanto meno le linee del nostro sguardo.
Mi viene in mente una poesia di Emily Dickinson. I poeti riescono laddove i comuni mortali si arrendono.
ci abituiamo al buio –
quando la luce è messa via –
come quando la vicina regge il lume
per testimoniare il suo arrivederci –
un momento – facciamo un passo incerti
per la novità della notte –
poi – adattiamo la vista al buio –
e affrontiamo la via – eretti –
e così è per più grandi – oscurità –
quelle notti della mente –
in cui nessuna luna svela un segno –
o stella – appare – dentro –
i più coraggiosi – brancolano un po’ –
e talvolta picchiano contro un albero
in piena fronte –
ma fa che imparino a vedere –
che sia l’oscurità a cambiare –
o qualcosa nella vista
che si adatta alla mezzanotte –
e la vita s’incammina quasi diritta.
Nei momenti in cui la luce si spegne, abbiamo ancora la possibilità di adattarci al buio e procedere quasi dritti. In questo procedere incerto, in questo languore di passi, “i più coraggiosi” cercano nuovi punti di fuga.
Ma cosa possiamo fare per contrastare questa condizione? La risposta sembra banale, eppure è la più ovvia: reagire. E possiamo farlo attraverso quello che è chiamato “flusso”, che può essere un antidoto al languore.
«Il flusso – si legge sul NYT – è quello stato inafferrabile di assorbimento in una sfida significativa o in un legame momentaneo, dove il senso del tempo, del luogo e di sé si scioglie. Durante i primi giorni della pandemia, il miglior portatore di benessere non era l’ottimismo o la consapevolezza ma era il flusso. Le persone che si sono immerse nei loro progetti sono riuscite ad evitare il languore e hanno mantenuto la loro felicità prepandemica».
Quel che serve è quindi concentrarsi su un piccolo obiettivo. Avvicinare i nostri punti di fuga. In un piccolo spazio prospettico si può iniziare da questo. «Uno dei percorsi più chiari verso il flusso è una difficoltà appena gestibile: una sfida che estende le tue abilità e aumenta la tua determinazione. Questo significa ritagliarsi del tempo quotidiano per concentrarsi su una sfida che conta per te – un progetto interessante, un obiettivo degno, una conversazione significativa. A volte è un piccolo passo verso la riscoperta di un po’ dell’energia e dell’entusiasmo che ti sono mancati durante tutti questi mesi».
Torno al principio per arrivare alla fine: nell’arte così come nella geometria descrittiva Il punto di fuga, è il luogo dove convergono (verso cui fuggono) le linee di profondità.
Questo è l’elogio di una fuga: ho imparato che nella vita, quando non si può camminare in estensione possiamo percorrere strade verticali, verso il profondo, o verso le nuvole.
Aggiustare un lavandino o sognare l’oscar: è la stessa identica cosa.
È comunque un procedere, quasi dritto.
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