La resistenza al cambiamento all’interno delle aziende che crescono è una costante.
Ho vaghi ricordi di complicati problemi matematici: trova K per i seguenti valori…
I valori sono noti. Dal punto di vista psicologico, il nostro istinto di sopravvivenza, di fronte a qualsiasi tipo di cambiamento, ci conduce, più o meno consapevolmente, a mantenere abitudini certe piuttosto che a sfidare l’ignoto.
Ulisse nasce una sola volta nella storia dell’umanità.
Ma le nostre azioni non sono semplicemente direzionate verso il mantenimento di una stabilità nota, spesso e volentieri poniamo ostacoli concreti a qualsiasi tipo di evoluzione.
Il paradosso è che, in termini di energia, a volte è molto più faticoso ostacolare il cambiamento che cambiare. Gli automatismi legati al nostro mondo, più o meno piccolo che sia, sembrano essere poco faticosi rispetto all’impegno che qualsiasi cambiamento richiede. Eppure l’esperienza ci insegna che non appena un’azienda inizia a trasformarsi, la lotta tra quegli automatismi e nuovi comportamenti diventa feroce e usurante.
Non solo: spesso il cambiamento viene imposto dall’alto e con una velocità angosciante per chi lo subisce. L’interpretazione più comune è legata alla paura di perdere un ruolo ma continuo a pensare che non sia questo il vero problema.
Il vero problema risiede in un paradosso spazio-temporale. Si fa prima quello che andrebbe fatto dopo!
Ho sempre sentito la frase: investiamo nel cambiamento. Ma prima di investire nel cambiamento è necessario disinvestire.
Disinvestire su di noi.
Ma come? La mia professionalità, la mia esperienza, le mie modalità di lavoro mi hanno portato fin qui. Ecco, il vero Big Bang del cambiamento a mio avviso risiede proprio nel coraggio personale di buttare via ciò che non ci serve più.
Faccio un esempio molto comune nelle aziende. La Digital Transformation è la parola d’ordine degli ultimi anni. Definita da uno studio condotto da MIT Center for Digital Business come “l’uso della tecnologia per migliorare radicalmente le prestazioni o la portata di un’organizzazione”, essa non riguarda in via esclusiva la tecnologia, è piuttosto un nuovo modo di pensare, di comunicare e interagire con i clienti, fornitori, partner e tutte le parti interessate dell’organizzazione. Riguarda infrastrutture e comportamenti, oggetti e cellule.
Ma quante volte ci siamo ritrovati a ridurla come la mera trasformazione di un foglio di carta in un database? Se la trasformazione digitale riguarda Cloud Computing, Artificial Intelligence, IoT (Internet of Things) e Big Data, sono ancora troppo pochi, all’interno delle aziende, ad essere parte integrante di questa trasformazione. L’incontro tra business e tecnologia fa sì che la competenza tecnologica sia una componente fondamentale del pensiero strategico.
E qui torniamo al disinvestire. Prima di investire in una trasformazione digitale è necessario svuotare, buttare, eliminare, per fare spazio a nuove competenze. Nel Konmari, la famosa arte del riordino giapponese che qualcuno di noi cerca invano di applicare nei cambi di stagione, la prima legge è liberarsi delle cose inutili. Quando passo dall’inverno alla primavera mi chiedo: da quanti anni non indosso più questa maglietta? Mi sta ancora bene? Se la risposta è no, la butto.
È complesso ma necessario applicare questo metodo anche alle nostre modalità di lavoro. Se provo a spostare la mia prospettiva e scatto un’istantanea del panorama attuale e al contempo delle mie competenze e modalità, sono allineate?
Il più delle volte mi accorgo che alcune competenze vanno integrate, che alcune modalità vanno dimenticate, che devo fare spazio e creare un vuoto per poter seguire la trasformazione.
Prima di comprare un nuovo vestito, se l’armadio è lo stesso, devo buttare il vecchio.
Le persone, e le aziende stesse, hanno volumi specifici. Il cambiamento non parte dall’investire. Ma dal gettare via.
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