Le 4 del mattino. Ero già sveglio. Ero sempre sveglio quando sapevo che saremmo partiti. Mio padre era convinto che dormire fosse un’attività inutile, soprattutto nei giorni d’avventura. E io avevo il suo gene. Quando la sveglia iniziò a suonare scattai in piedi, i miei piedi grandi come scialuppe di nave da crociera. Ben saldi sul pavimento. C’era l’odore del sonno di famiglia in corridoio. In bagno papà era già bianco di schiuma da barba. Mi piaceva sedermi sul bordo della vasca e osservarlo. La mano certa, piccoli movimenti su e giù. Una sciacquata. Ed era perfetto. Mi chiedevo quando avrei cominciato anche io. Una volta che ero solo in casa c’avevo provato. Mi ero spalmato la sua schiuma e con il rasoio al contrario avevo compiuto quel rito magico. Ed ero mio padre. Grande, forte, mio padre.
Papà si voltò verso di me:
“ Fai in fretta!” .
Mia sorella era sempre l’ultima. Ed era una scocciatura per tutti. Mi ero sempre chiesto come fosse uscita da una famiglia geneticamente perfetta una pazza come lei. Non parlava, urlava. Non piangeva, strepitava. Non pensava, rimuginava. Una volta avevo sentito mia madre che piangeva disperata in camera da letto, non sapeva più che fare. E mio padre aveva detto serio: “Buttiamola!”. Credo di aver capito solo dopo, tanto tempo dopo, che la sua era solo una provocazione. Perché invece, in quel momento, per un istante ci sperai. Che la buttassero.
Sulla porta di casa le borse erano già sparite, papà era in macchina, il motore a scaldare. Mia madre si era messa quelle strane scarpe di gomma che la facevano sembrare un palmipede. E mia sorella già aveva cominciato a lamentarsi perché aveva sonno.
Io ero pronto. Io ero sempre pronto. E felice.
Quella mattina la 600 mi pareva la nave dei pirati, al posto dei cannoni uscivano canne di bambù, al posto della bandiera, tovaglie, al posto del capitano, papà.
Mi mettevo seduto dietro mia madre, perché così riuscivo a vedere meglio papà che guidava. Osservavo e tenevo a mente. Sapevo che se mai ci fosse stato bisogno io sarei stato in grado di muovere quella scatola di latta. Al casello mia sorella doveva già pisciare. Lei non faceva pipì, lei pisciava. Sono sempre stato bravo a scegliere le parole, non perché ne avessi una gran stima, ma perché sapevo che gli altri gli davano un gran peso. Eppure erano solo parole. Il rasoio di mio padre su e giù senza ferire, quella era una cosa. Ma “radersi” era una parola comune, banale, insensata.
Ma avevo già capito che le persone che mi circondavano, e soprattutto mia sorella, pensavano che il mondo fosse nelle parole, e così le usavo a modo loro.
“Già devi pisciare?”
“Smettila, sei volgare”
“E’ la verità, devi pisciare” e mentre lo dicevo mi veniva da ridere a vederla diventare rossa dal nervoso solo per un verbo della prima coniugazione. Mio padre taceva, mia madre terrorizzata da un imminente attacco isterico della figlia mi zittiva. Così neanche 1 km dopo il casello la prima sosta, in una piazzola. Tutti giù, sportello aperto, mia madre a fare da scudo e la guastafeste pisciava!
Durante il viaggio guardavo fuori dal finestrino. E immaginavo che tutto quello che vedevo fosse un film, non un film qualunque. Un operatore spaziale lo stava proiettando tutto per me, solo per me. Non pensavo che chiunque in quell’auto potesse vedere quello che vedevo io. Quella terra e poi erba, e poi una casa, e poi un camion e poi un paese e poi mare, quella roba li era per me. Il mondo era li per me. E mi aspettava.
Due ore di viaggio, alle 6 del mattino eravamo in riva al mare.
Il silenzio è una cosa strana. Io al silenzio mi ci ero abituato presto, da quando mia madre non pensò che fossi abbastanza grande da rimanere solo a casa, ma si convinse che potevo starci, perché non poteva fare altro che uscire. Io rimanevo solo a casa. Nel silenzio. Il silenzio fa un rumore. Nessuno lo sa. Ma il silenzio è rumoroso. Non rumori qualunque, non i clacson giù dalla strada, non il campanello del vicino, e neanche una radio dal palazzo di fronte. Il silenzio sono respiri, scricchiolii, è legno che vive, metallo che si dilata per il calore, è una mattonella che ondeggia, staccata dal massetto. E il cuore tuo, lo stesso cuore tuo che batte in un auditorium vuoto.
Faceva paura. Una paura da stringerti la cassa toracica fino a spappolare gli organi interni. Ma io avevo saputo farci i conti. Io ero uno da strategie.
Avevo già intuito qualcosa. Qualcosa che sarebbe tornato tante volte nella mia vita. Avevo intuito che se fuggi vieni inseguito. Se rimani rimane. Se guardi dritto negli occhi altri occhi non reggono lo sguardo. E così io quel silenzio lo guardai negli occhi, anzi, lo ascoltai, lo definii, lo studiai così accuratamente che alla fine quei rumori divennero la mia compagnia, e a volte si stancavano prima loro di me e se ne andavano.
Ora sulla spiaggia, la 600 parcheggiata con le ruote sulla sabbia. Mia madre si guarda intorno per vedere se esistono umani. Mio padre ha la mano sul cofano a sentire quanto s’è scaldato il motore, mia sorella si è già seduta per terra e non guarda. E io, io sono lì che guardo loro e guardo il mare, perché ho gli occhi come le mosche, che vedono avanti e di traverso. E non mi perdo niente. Ora, questo silenzio mi sa di avventura, mi sa di onde enormi, e tsunami, e cielo che si apre e vele al vento, e un capitano che ordina alla ciurma di cambiare direzione e seguire il maestrale, e mi sa di pietre preziose e tesori nascosti e tigri ed elefanti.
Mi volto e papà mi guarda. Avrà mai visto quello che vedo io? Cosa vede lui, da lì sopra?
Ora vede me. Non sorride, non lo fa quasi mai quando mi guarda negli occhi, lo fa di traverso, come a dire ti amo ma deve rimanere un segreto.
Papà è uno che sta serio dal dritto, sorride di traverso, e ride in cerchio. E quando ride tutti sono gradi di un goniometro e sono 360.
Mi chiama con un cenno, prendi le cose in macchina che montiamo la tenda.
Sono operaio, e sono forte, e sono intelligente, non ho bisogno di grandi indicazioni, so quello che devo fare, papà lo sa, e mi da gli ordini muti, con un vagare di pupille.
Prendiamo le canne di bambù e le piantiamo per terra, profonde, che il vento non se le porti via insieme al telo. Mia madre stende una tovaglia che promette un gran mangiare, e sono solo le 7 del mattino. Mia sorella legge un fotoromanzo con i piedi immersi nella sabbia.
Io e lui siamo pronti. Ho la pelle d’oca. Nudi come vermi, uno slip nero e basta. Papà mi guarda, la pupilla si sposta verso il mare. E via. Di corsa come pazzi ci tuffiamo nell’acqua gelida e senza paura lui e con paura io cominciamo a dare bracciate all’acqua salata, e una bracciata dopo l’altra sono sulla scia di papà che avanza veloce verso la boa e io mi chiedo se ce la farò e penso che ce la farò e ho il fiato che si rompe, il cuore che si rompe, la pelle che si ferisce di freddo e il pisello che è il mio mignolo. E papà sembra sempre più lontano, e la boa è la Patagonia che non so dove sia esattamente ma so che è il contrario del mondo.
E’ strano, non ho più nulla che non faccia male eppure tutto è bello. Tutto. E papà ha rallentato, e sta vicino alla boa e si soffia il naso con le dita che penso sempre che quando arriverò a lui nuoterò nel suo mocciolo ma in fondo lui nuoterà nella mia pipì.
E arrivo, arrivo che ho freddo e ho caldo. E lui allunga la mano e mi scuote i capelli. E sorride dritto. E questo non è normale. Mi appoggio alla boa, e con un piede tocco la sua gamba. E lui continua a guardarmi dritto e il sorriso non è più sorriso, è muscoli contratti. E allora gli dico col fiato spezzato, papà.
E lui non risponde e la sua testa sparisce dentro l’acqua e bolle d’acqua esplodono in superficie. E allora papà, e ancora papà. E in un istante mi accorgo che è una parola e che non ha senso. Papà non è la mia voce, papà è quell’uomo che si contrae appena sotto la superficie del mare. Prendo l’ultimo fiato che ho e vado giù, e il sale brucia gli occhi e vedo la mano di papà che stende un nodo sul polpaccio. E quel nodo non si scioglie. E allora torno su, e sono solo, e lui è giù, ancora giù, ed è solo. Guardo verso la riva e mi accorgo che l’umanità intera adesso è inutile. Solo io esisto. Non mia madre, non mia sorella e neanche quel pescatore che è spuntato dal nulla a 100 metri, che se anche lo chiamassi ci metterebbe la vita di mio padre ad arrivare. E allora vado giù ancora e afferro mio padre con le mani. Che se solo fossero grande come i miei piedi l’avrei fatto salire a bordo. Esito, ma scendo anche io. E’ lui allora che con le sue mani afferra me, e mi spinge fuori dall’acqua. E allora devo pensare. Pensare. Fermi tutti, io devo pensare. Operatore, dovunque tu sia, blocca la pellicola. Ecco. Il cielo è fermo, il mare è fermo, quelle donne in riva accanto a un pescatore sono una cartolina: saluti da Anzio. E mio padre è una statua di bronzo rinvenuta in fondo al mare. E io. Io allora mi ricordo di una pagina. Una pagina di un libro. Un libro con la copertina rigida e qualche figura sparsa qua e là, un veliero, e poi un uomo in divisa in cima a un elefante, e un vecchio baffuto che fuma tabacco e un giovale malese che sfida una tigre. E in quella pagina il giovane malese s’era trovato in mezzo all’oceano senza appigli, senza boe, che le boe non esistono nei libri di Mompracem, e neanche sua madre appoggiata al cofano della 600, che Sandokan è figlio della foresta, non è mica stato partorito da un utero qualsiasi. E il suo amico Yanez stava affogando e non aveva più fiato che il fiato se l’era giocato con l’ultima sigaretta fumata. E allora Sandokan lo afferrava da dietro, prendendolo per il collo, e non stringeva, no, che altrimenti lo avrebbe strozzato, e con un colpo di reni e gambe a rana, sdraiato sull’acqua era riuscito a salvarlo malgrado quel vecchio baffuto ansimasse e gridasse e invocasse la sua ultima sigaretta.
Vai, operatore, vai con la pellicola.
Prendo fiato, tanto fiato, da riempire mille polmoni, nuoto sott’acqua dietro mio padre che è statua di bronzo che affonda. E da dietro lo afferro per il collo, e lui si aggrappa al mio avambraccio cercando di scansarlo, ma io sono un giovane malese adesso, e lui non ha più fiato e allora si arrende, e io do un colpo di reni e grazie a Dio ho piedi come scialuppe di Titanic e spingo forte e salgo, salgo e ancora salgo, e lui pesa e non pesa. Pesa e non pesa. In un ritmo che mi da modo di arrivare in superficie. E strozzandolo per vivere comincio a gridare, e non per chiedere aiuto, ma per rabbia, e non so che rabbia è, è una rabbia che mi viene dai muscoli e dai polmoni, dai reni, e dalla pancia. E più grido più sono forte e mio padre non è più mio padre, è Yanez. E quando saremo a riva gli darò il sigaro migliore che abbia mai immaginato. E il pescatore solleva lo sguardo, e lascia andare la canna e si tuffa, e arriva da me che io sono arrivato quasi alla salvezza e allora grido talmente forte che viene spazzato via dall’onda della mia voce. Nessuno mi tocchi finche non l’ho salvato. E arrivo dove si tocca e tocca anche mio padre, e ha una smorfia di dolore, e il nodo sono diventati mille nodi. Crampi e dolore. E siamo salvi. E mia madre taglia il timballo. Alza lo sguardo e grida: Venite a fare colazione. Col timballo. E mia sorella non c’è, sarà a pisciare. E il pescatore si allontana, che ha di meglio da fare. E io e mio padre rimaniamo soli. Siamo soli al mondo. Siamo soli sull’isola di Mompracem. I muscoli si stanno rilassando. E le sue gambe sono bastoni molli. E il mio petto si gonfia e si sgonfia e si sconquassa. E sono Sandokan, e non ho tabacco per Yanez, ma Dio se sono felice. Mi ride la pelle, mi ridono i capelli, mi ridono le sopracciglia. E sono senza fiato. E senza fiato pure lui, adesso mi guarda dritto negli occhi e sorride, e sta dritto, non di traverso e ride, e ride e mi guarda dritto, non in cerchio. Lui guarda proprio me, dritto dritto.
E mi dice. Vatti a mangiare il timballo.
Di Cristina Masciola (cristina[at]aminstruments.com)
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